domenica 19 ottobre 2014

Succede nell'Alta Murgia

Succede nell’Alta Murgia, durante una passeggiata domenicale fra Santeramo e Acquaviva, che ci si imbatta in successione in a) un gruppo di softgunner meticolosamente equipaggiati, b) un signore con indosso un paio di pantaloncini troppo corti – o è forse una calzamaglia arrotolata su fin quasi all’inguine? – che imbonisce i passanti invitandoli a cercare su internet informazioni sulle attività didattiche del suo osservatorio astronomico (che poi sarebbe quella cosa lì, accanto a lui: un tamburo di poco più di un paio di metri di diametro sormontato da un’ogiva di latta a mo’ di cupola), c) una signora che racconta a un compagno assenziente come, andata a trovare a Milano la figlia, “naturalmente” superava abitualmente insieme a quella il tornello d’ingresso della metropolitana usando un solo biglietto, d) un gruppo di ospiti di un agriturismo che attraversano quel che resta del bosco di Mesola in quod alimentati da rumorosi e puzzolenti motori a due tempi, e) un certo numero di donne, ospiti anch’esse del medesimo o di un altro agriturismo, di età varia ma invariabilmente con tacco fra il 10 e il 15 che si aggirano in abiti da festa, troppo spesso inopportunamente attillati, in quella che una volta era un’aia e adesso è diventata un incongruo spazio all’aperto asservito ad attività genericamente ricreative (la destinazione funzionale del luogo intuibile dalle espressioni che le suddette signore e i loro accompagnatori – questi ultimi in verità con assai meno entusiasmo – assumono con la volontà di adeguarsi alle circostanze), f) un trio composto da una violoncellista, una tamburellista e un fisarmonicista che suona pizziche e tarantelle, g) una cavalla, sulla cui groppa si può fare un giro intorno alla masseria in cambio di due euro, e il suo padrone, h) un pastore extracomunitario che conduce un gregge di capre e pecore malconce.
Questa disperante tassonomia è, senza dubbio, uno dei tanti modi possibili di ritagliare il mondo, di scorticare la realtà per metterne a nudo le giunture più o meno salde. La scelta degli elementi dell’elenco – nel quale ho deliberatamente trascurato di inserire me e chi mi accompagnava per evitare di innescare un effetto Droste dalle conseguenze imprevedibili e potenzialmente di difficile gestione – è dovuta dunque al mio sguardo. Eppure è fuor di dubbio che si tratti di apparizioni reali che si sono presentate nell’esiguo spazio di una mattinata e lungo il breve percorso che in quel lasso di tempo è possibile coprire con l’andatura che conviene a una tranquilla passeggiata campestre. Trascurando la possibilità assai remota che per una serie di coincidenze queste apparizioni siano state date a mio esclusivo beneficio – non foss’altro perché anch’io in tutta evidenza mi trovavo a essere apparizione per qualcun altro – bisogna che si consideri non infrequente in quei luoghi, perlomeno in giornate festive, questa coincidenza stratigrafica di elementi provenienti da remote orografie dell’essere, e dunque che ci si trovi di fronte a quello che, in tutta evidenza, debba essere considerato un corpus indiziario.
Ma per procedere oltre, per poter inseguire le piste lungo le quali questi indizi sembrano volerci condurre, è necessario dare conto del fatto che queste apparizioni sono accompagnate da un fenomeno del quale ciascuno dei convenuti si trova a essere a un tempo partecipe e testimone: questo cozzare di narrati, di culture, di immaginari non provoca spaesamento, disagio, paura. L’irruzione del diverso non ha un effetto perturbante: i piani delle esistenze si sfiorano, vengono a contatto, si intersecano anche, ma è come se si trattasse di ombre, visibili assenze, fluttuazioni da un’altra dimensione ontologica. Il clandestino, fuggito dall’Africa per lasciarsi alle spalle l’orrore di chissà quale guerra tribale e che qui sopravvive malamente badando per quel che può a bestie malandate, non inorridisce di fronte a quei ragazzotti ipernutriti che si aggirano per la boscaglia con fare furtivo in tuta mimetica giocando alla guerra. E le signore inguainate in similpelle guardano solo leggermente interrogative e forse un po’ divertite lo sconosciuto che vuole indicar loro la strada delle stelle, ma più per come è vestito che per l’insensatezza della pretesa. Chi va a piedi si scansa mite per lasciar passare la fila fastidiosa dei quod.
Ma non si tratta di tolleranza, di accettazione partecipe delle diversità, quanto piuttosto della copresenza ammutolita di regioni ontologiche. E questo mutismo è la manifestazione empirica della franchigia comminata dal luogo. È il luogo ad avere il sopravvento sulle vite, a svolgere una funzione anestetizzante sui presenti, nello stesso modo in cui l’anticamera di un veterinario inibisce cani e gatti dal prendere atto della reciproca presenza e li rende inerti.
Esistono luoghi capaci di desemantizzare chi e cosa li attraversi, luoghi di deprivazione narrativa. Luoghi che spogliano le presenze di identità, ma, e questa è la loro grande attrattiva, anche del peso a volte intollerabile che quelle identità ci costano; luoghi che ci permettono, come oggetti abbandonati sulle spiagge, di tentare nuove identità almeno per il tempo in cui vi permaniamo; un tempo sospeso, fuori dalle liturgie delle relazioni sociali ed economiche, proprio come il Carnevale è un tempo di sospensione fuori dal tempo liturgico. Luoghi così vengono chiamati “nonluoghi”.
Ecco: durante una passeggiata domenicale ho scoperto che l’Alta Murgia è diventata un nonluogo. E adesso mi sembra una scoperta banale. Ci sono arrivato praticando un giro molto lungo, e invece sarebbe bastato che riflettessi sui rapporti economici che tengono vivo, o piuttosto in stato di animazione sospesa, quel territorio.
Ma è che nessuno, quando ho imboccato il sentiero, mi aveva detto: “Benvenuto in questa disneyland fai da te”

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