domenica 15 luglio 2012

Geometriche seduzioni. (Appunti su pubblicità e libertà).


Scegliete a piacere due attributi e sistemate ciascuno di essi su un asse orientato e graduato. Verrà così definito uno spazio cartesiano – diviso nei quattro quadranti che conoscete dalla scuola dell’obbligo – nel quale potrete posizionare qualunque oggetto (brand, canzone, sentimento, smartphone, o quel che vi pare) sulla base del punteggio che per ciascuna proprietà gli attribuirete. Naturalmente in questo spazio potrete, volendo, posizionare anche voi stessi.
Usando per esempio gli attributi “elegante” e “alla moda” e assegnando un punteggio che vada da molto elegante (1) a assolutamente trasandato (-1) e da decisamente trendy (1) a assai demodé (-1), vi scoprirete in grado di maneggiare una geografia dell’immaginario capace di dar conto di ogni sfumatura fra l’elegante e lo sciatto, il modaiolo e il d’antan.
Aggiungete un terzo asse – definito per esempio dagli opposti “pratico” e “scomodo” – e potrete nuotare in uno spazio tridimensionale nel quale viene compreso ciò che non è affatto alla moda e nemmeno elegante ma assai comodo, oppure non definibile come “comodo” o “a la page” ma comunque elegante, come può esserlo una mossa del gioco degli scacchi.
A questo punto, se riusciste a immaginare un universo a n dimensioni, vi ritroverete a maneggiare una istantanea
in cui sono visibili le prossimità fra idee e prodotti, le affinità fra gusti e marche, le ragioni e le possibilità di operazioni di co-marketing, le alleanza potenziali fra brand e le sponsorizzazioni che non avverranno mai. Scorgerete i confini delle identità di marca e gli spazi vitali delle idee di prodotto, i territori ancora vergini, quelli occupati e quelli contesi. insomma quell’universo fatto di loghi, brand, offerte e sponsorizzazioni, claim e spot in cui nuotano i pubblicitari.
Se poteste scattare nel tempo molte istantanee scoprireste un universo agitato, ribollente, in cui idee si aggrappano ad altre per formare isole di effimera stabilità, fino a quando non interverranno nuove e potenti correnti a strapparle via per affondarle o per aggrumarle a formare impaludamenti o nuove  isole o continenti. Ecco nodi di cravatta o spacchi di gonna, norme o sentimenti, linee di carrozzeria e modi di dire che restano in superficie per pochi mesi o molti anni e che poi scompaiono per sempre o invece riaffiorano, appena mutati, dopo decenni e in tutt’altri contesti.
Qual è il motore di queste dinamiche?
Pensate a ogni marca, a ogni prodotto, a ogni annuncio pubblicitario come a un brandello di informazione, a un’idea che – come tutte le idee – non vive da sola, ma che insieme alle altre formi sistemi il cui funzionamento non differisca da quelli ecologici. Pensate a un mondo fatto di memi.
Come gli organismi biologici i memi instaurano un rapporto di dipendenza o di predazione, di simbiosi, di parassitismo o di commensalità con gli altri memi con cui si trovano a interagire: lussureggianti e intricatissime foreste di significati, praterie di segni dove pascolano branchi di simboli, di idee, di concetti che mettono in atto complesse strategie per la sopravvivenza e il dominio.
I memi – è questa la tesi di Richard Dawkins – hanno vita propria: usano gli esseri umani allo stesso modo in cui i virus usano altri organismi viventi. I pubblicitari, e in genere coloro che si occupano di comunicazione, possono avere un ruolo nello sviluppo del sistema, o perlomeno possono credere di averlo, allo stesso modo in cui un militare che scateni una guerra batteriologica può credere di sapere quel che sta facendo. Ma saranno  comunque i memi ad agire i pubblicitari e non viceversa: in fin dei conti si tratta pur sempre di esseri umani.

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Quello in panne è un Volkswagen Type 2 “Kombi”, di quelli con il grande marchio al centro del frontale dove le nervature della lamiera formano una grande V che divide la carrozzeria in due campiture di diverso colore; le tavole da surf sul tetto e le quattro ragazze stile California dreaming che cercano di spingerlo fugano ogni dubbio: si tratta inequivocabilmente di un Hippie van.
Quella che invece arriva è una Nuova Mini Cabrio, vettura che del progetto di Alec Issigonis non conserva nulla se non il nome e una vaga ispirazione formale: l’appeal che quel mezzo pratico ed economico si era conquistato consentendo a tanti la mobilità anche in tempi difficili è stato riversato, con un’abile operazione di marketing, su un lussuoso bene da ostentare. Lo stile di vita che faceva della libertà da ogni cosa che costituisse un impaccio al viaggiare, conoscere, amare un obiettivo universale è stato rideclinato in libertà di viaggiare, conoscere, amare se si ha la possibilità economica per farlo e indipendentemente dal prossimo. Operazione paradigmatica di quello slittamento di senso, di quella frana semantica, che ha riscritto la libertà sessantottina nella libertà dei mercati: dagli hippy agli yuppie il passo è stato davvero breve.
Il furgoncino Volkswagen in cui chiunque trovava gioiosa e promiscua ospitalità è irrimediabilmente rotto – definitivamente bocciato dalla storia – e viene abbandonato sul bordo della strada insieme alle quattro ragazze bionde. I due giovanotti sulla Mini senza rimpianti procedono oltre, verso la felicità di un abbonamento televisivo.
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Non so se Dawkins voglia vantare la paternità del marketing virale e dell’idea di ecosistema di marca, sicuramente i presupposti teorici di queste due pratiche devono molto allo scienziato britannico.
Torniamo al nostro quadrante cartesiano: immaginate assi orientati per le categorie “buono” e “genuino”. Date un voto al cioccolato e alla frutta, alla pasta e al Big Mac. E immaginate di dover realizzare uno spot per quest’ultimo prodotto: creerete un mondo in cui il grasso, il fritto, il dolce e l’unto si sposano armoniosamente fra loro e con la vita in un mondo che ignora l’esistenza del colesterolo e in cui la forma fisica è indipendente dall’alimentazione. In questo mondo i problemi saranno quelli per i quali  McDonald vuole essere una risposta. I vestiti si adatteranno allo stile Mac, i colori non dovranno essere dissonanti con il logo aziendale, tutti mostreranno sorrisi fra rivoli di ketchup e piatti di carta plastificata.
Dall’ecosistema verrà escluso non solo tutto ciò che possa risultare in conflitto evidente con i valori di marca, ma anche tutto quello che possa lasciare varchi a piccole dissonanze potenzialmente capaci di veicolare associazioni non coerenti con lo spazio semantico che la marca occupa. Vittime della comunicazione aziendale, destinate a un ostracismo assoluto, saranno non solo idee relative a prodotti concorrenziali, ma gli stili di vita non compatibili o semplicemente alternativi: la pubblicità è immediatamente, intrinsecamente, politica nel suo escludere o inglobare, nell’espandersi fin dove riesce a trovare compatibilità e nel cancellare tutto ciò che gli è ostile.
Tutto ciò che può rappresenta una alternativa all’ecosistema di marca va ignorato e, se non è proprio possibile, tradotto in un linguaggio compatibile: il Type 2 è vecchio e scassato, lascia stare, corri a casa goderti la Premier.


(A beneficio di chi non l’abbia visto o voglia rivederlo questo link punta allo spot di cui si discute in questo brano

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