venerdì 3 febbraio 2012

Io che ho amato Majakovskij, ovvero di quel che si vede oggi sui muri di Molfetta


S'io fossi piccolo come il grande oceano,
mi leverei sulla punta dei piedi delle onde con l'alta marea,
per accarezzare la luna. 



Uno più scemo dell’altro,  l’altro più inutile del primo. Quale sia il più brutto non so. Il tema, s’intende a stento, avrebbe a che fare con la politica. Incollati sulle plance, impegnati in una muta competizione per l’attenzione di passanti  che ne hanno solo per la Champions, si sovrappongono a una paesaggio così spossato da riuscire a opporre solo indifferenza a ogni nuova offesa, così derubato di ogni qualità da accoglierli con tenerezza per affidarli  a un rapido e meritato oblio.  
In Italia, dicono i sondaggi, solo un residuale 14% della popolazione è ancora capace di nutrire fiducia nei partiti. A Molfetta non saprei dire a quanto sia ridotta la pattuglia di irriducibili; certo, non chiamerei “fiducia” ciò che prova quest’indigena ostinata minoranza. Si tratta piuttosto di consapevole irragionevolezza: ci si deve pur aggrappare a qualcosa se si vuole far finta di essere vivi, almeno ancora un po’…  
Ci sono, è vero, anche i correi, i sodali, i turiferari, i ceroferari e ministranti vari, i professionisti di qualcosa. Sono loro nel nostro caso gli unici ad appassionarsi alle fugaci apparizioni cartacee: si tratta degli stessi autori e, ma solo a volte, dei loro committenti. Ma parlare di fiducia nel loro caso è sicuramente inopportuno.  
La sciagurata nascita della proteiforme figura del “comunicatore”, figlio di una riforma universitaria insulsa, ibrido bastardo, né giornalista né pubblicitario, dall’anima scissa tenuta insieme solo dalla speranza di guadagno e dalla convinzione, in verità immotivata, di poter sfornare “creatività” a comando – quasi che movimenti spasmodici e sussultori possano essere confusi con l’amore – porta a questo ridicolo fenomeno che ammorba l’Italia e produce nelle remote provincie catastrofi dell’anima e della grammatica che sarebbero fonte di irrefrenabile comicità se non fosse che tutti, come in ogni vera tragedia, si prendono troppo sul serio.
Capita così che lo sciagurato di turno sforni, garrulo, il suo claim e subito cerchi appoggio alle sue cretinerie sui social forum, subito si preoccupi di evocare il fuochino di copertura della stampa amica. Per inciso, se per libertà di stampa l’Italia è scesa al 61° posto nel mondo, inseguendo Mauritius, Samoa, Bosnia Erzegovina e Guyana, come si collocherebbe Molfetta in una ipotetica classifica che la comprendesse? Questa figura ha dato il colpo di grazia a una professione che di schiene piegate fino ad angoli inverosimili e disumani è sempre stata piena.
Eppure, a parziale discolpa dei protagonisti di questa farsa, diciamo la verità: che altro può essere oggi la politica se non il rilanciarsi – attraverso una permeabilissima e affollatissima frontiera – slogan cretini e vuota retorica?
Se la politica non può fare quello che dovrebbe per far ripartire l’economia, se non si può spendere in deficit, se la stessa locuzione “ente pubblico” è diventata l’evocazione di satana, il male in sé, l’obbrobrio nauseabondo e impronunciabile, se la realtà è diventata inoperabile, tutto il resto è starnazzar di cornacchie.
Se la politica si è mutilata di se stessa, ha amputato da sé la capacità di incidere sulla realtà in una delirante auto-giubilazione liberista e liberticida, che altro può fare ora se non credere di essere viva raccontando barzellette o agitando la borsetta come una vecchia baldracca?


Aderire o non aderire?
La questione non si pone per me.
È la mia rivoluzione.






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