mercoledì 29 febbraio 2012

Il sorriso del capitano. I bastoncini al salmone e l’estinzione tendenziale del pensiero di sinistra


It's no fish ye're buying, it's men's lives 
Walter Scott, The Antiquary 


Mentre nubi procellose si avvicinano una voce fuoricampo invita a non aver paura del cambiamento che – l’ha insegnato il capitano! – porta sempre qualcosa di buono: i nuovi bastoncini Findus al salmone...

Era il giorno di San Giovanni del 1497 quello in cui Giovanni Caboto, dopo aver lasciato Bristol un mese e mezzo prima, si imbatté nelle coste di quella terra che sarà in seguito conosciuta come Labrador. La coincidenza dovette sembragli propizia.
Di quel lontano paese, una volta tornato in Inghilterra, raccontò le acque così piene di pesci che la Matthew, circondata a perdita d’occhio da fianchi argentei e frenetici, aveva difficoltà ad avanzare, e il mare che sembrava vivo, fatto di squame e di branchie, e di pinne che sollevavano tanti spruzzi che pareva di navigare nella nebbia. Per pescare quei pesci non c’era neanche bisogno delle reti: bastava affondare un cesto e tirarlo su.
I pescatori portoghesi, che insieme a quelli normanni e baschi arrivarono di lì a poco, battezzarono quei luoghi Tierra de los bacalhaos. Gli inglesi preferirono chiamarla Newfoundland.
La storia della prima colonizzazione dell’America del Nord è una mappa degli insediamenti inglesi e francesi di pescatori di merluzzi. Per cinquecento anni sui Grandi Banchi di Terranova ne sono stati pescati tanti da soddisfare quasi i due terzi della domanda europea e da alimentare, una volta trasformati in baccalà e stoccafisso, la tratta degli schiavi africani e le flotte da guerra e delle compagnie commerciali.
Fino alla fine del Settecento si catturavano alla lenza merluzzi per 100 mila tonnellate all’anno; centocinquanta anni dopo si era una arrivati a 300.000 tonnellate. Alla fine degli anni ’60 pesca a strascico e motonavi dotate di celle frigorifere fecero salire le quantità pescate a 800.000 tonnellate.
Repentino, ma non inaspettato, a metà degli anni ‘80, arrivò il collasso. 40.000 pescatori canadesi che vivevano di merluzzi si ritrovarono a guardare un mare deserto.
Il 2 giugno 1992, il governo canadese impose una moratoria indefinita sulla pesca del merluzzo bianco. Oggi nell’Atlantico occidentale il merluzzo resta un fantasma.  
Sul versante europeo non va molto meglio: nonostante le misure prese per contenere l’overfishing, anche nel Baltico come nel Mare del Nord o in quello di  Barents come nel Golfo di Biscaglia, gli stock sono prossimi al collasso. Una significativa parte del merluzzo che ancora arriva sui mercati, non meno del 30% forse addirittura il 50, proviene da attività illegali, da pesca, cioè, praticata in luoghi, tempi o modi vietati.

Sono pochi oggi i salmoni che risalgono i fiumi. Sulla superficie intorno alle gabbie che li costringono in porzioni misere di mare galleggiano in superficie macchie oleose arancione: il 50% della produzione mondiale di olio di pesce è usato nell’allevamento del salmone, serve ad arricchire le carni di omega 3. Gli avannotti vengono preparati a parte in gabbie con grandi luci accese tutto il giorno nel buio inverno norvegese per accelerarne la crescita. Ma nessuno di loro arriverà alla maturità sessuale. Nessuno sentirà scoppiargli nelle viscere il desiderio straziante di risalire i fiumi. Verranno macellati prima. Intanto mangiano farina di pesce e pellet di grano, soia e piume di pollo. Alla loro dieta vengono aggiunti carotenoidi per far sì che le loro carni abbiano un colore che corrisponda a quello dei loro parenti selvatici.
L’elevato numero di pesci concentrati in piccoli spazi provoca un pesante inquinamento localizzato, richiede la somministrazione di antiparassitari, antibiotici, disinfettanti e vaccini che non impediscono però che malattie e parassiti si trasmettano ai pesci fuori dalle gabbie: le fughe dalle gabbie non sono affatto rare e sono causa per di più dell’indebolimento del patrimonio genetico delle specie selvatiche.
Per facilitare le operazioni di trasferimento dei pesci fra le vasche vengono utilizzati anestetici e tranquillanti e ormoni per indurre e sincronizzare l’ovulazione o come fattori osmoregolatori per facilitare il passaggio dall’acqua dolce a quella salata dei giovani salmoni. Ogni chilo di pesce d’allevamento richiede fra i tre e i cinque chili di pesce selvatico che arriva, trasformato in farina, dalle coste del Cile e dell’Africa e dalle enormi navi-fabbrica spagnole, coreane  e thailandesi che raschiano via tutto ciò che c’è di vivente dal fondale fino a trasformarlo in deserto.
Il collasso degli stock di pesce selvatico – non è solo il merluzzo a rischiare l’estinzione ma i tre quarti delle specie pescate – sta spingendo alla creazione di impianti di acquacoltura sempre più grandi e numerosi. Più del 40% del pesce consumato a livello mondiale oggi proviene da allevamenti e il settore è in continua e rapida crescita.

Non so quanti siano quelli che conoscono le vere proporzioni di questa catastrofe che si sta consumando in diretta. Arrivano al grande pubblico le proteste dei pescatori per il caro carburante o per le decisioni prese da Bruxelles in materia di politica di limitazioni della pesca e il sorriso compiaciuto e fiducioso di Capitan Findus che promette salmone al posto del merluzzo.
Da un lato rivendicazioni, norme, regolamenti e – sì certo – anche la vita di qualche migliaio di persone più o meno lontane e per le quali si può, per quel che serve, provare solidarietà e umana simpatia; dall’altro, dal lato del sorriso, la rassicurazione che il mondo conserverà la sua operabilità, che il quotidiano sarà preservato e il domani resterà uguale all’oggi, che da quello che certo troverò al supermercato e metterò nel piatto del mio bambino ne ricaverò un altro – e quanto gratificante! – sorriso.
C’è già fra questi piani una evidente sproporzione; ma, quando si consideri l’efficacia dei registri narrativi a cui può ricorre chi voglia raccontare le ragioni dell’ambientalismo e quelli che sono propri della comunicazione pubblicitaria, ci si imbatte in un salto qualitativo.
Chi voglia denunciare ingiurie al paesaggio, raccontare le sorti del territorio, di fiumi e di laghi, protestare per l’inquinamento dell’aria o per una scorretta gestione dei rifiuti può scegliere fra un resoconto asciutto basato su cifre e fatti nudi o, tentare la strada dei sentimenti, come, l’ammetto, ho fatto io a proposito del salmone.
In entrambi i casi, al di là delle intenzioni dell’autore, il suo discorso verrà rubricato all’interno dell’orizzonte catastrofistico delle cassandre, e riconosciuto come appartenente a un genere narrativo ampiamente esorcizzato, luogo retorico assegnato a giullari o folli e che, in ogni caso, non può che provocare al più una impotente scrollata di spalle da parte dell’ascoltatore. Di sciagure, disastri e persino della fine del mondo si fanno spettacoli di successo al termine dei quali si riprende la solita vita. I più sensibili, vittime di dissonanze cognitive, possono intraprendere un percorso terapeutico programmato non lasciando gli elettrodomestici in stand-by, evitando di usare lo sciacquone ogni volta che si fa pipì, mettendo termovalvole sui termosifoni, facendo soprammobili con le bottiglie vuote, comprando frigoriferi e lampadine a risparmio energetico. Per poi, una volta riappacificati con la propria coscienza, rifugiarsi – e che altro potrebbero fare? – nei luoghi quotidiani e monotoni, nelle risposte adattative e individuali, nei quali viene accompagnato da rassicuranti messaggi: finito un pesce se ne fa un altro; la sostituibilità infinita e illimitata dei beni non è forse un precetto fondante della teoria liberista?
Il fatto è che esiste una incolmabile differenza fra l’efficacia persuasiva dei racconti strutturati o che cercano di essere tali e quella dei messaggi deliberatamente frantumati, progettati per essere liquidi nel liquido, per raggrupparsi naturalmente ad altri messaggi analoghi in forme che possono essere gregarie, simbiotiche o parassitarie per formare tendenze, mode, correnti e infine una visione del mondo che appare ribollente, cangiante e attraente ma che è quella della organizzazione capitalistica che simula la vita e che a quella aspira a sostituirsi.
Dietro il sorriso del capitano non si nasconde solo la tragedia dei mari svuotati dei pesci; non ci sono solo gli schiavi a bordo delle navi fabbrica o le pressioni lobbystiche delle pochissime grandi compagnie che si spartiscono il business mondiale del salmone d’allevamento per ottenere che salmoni a crescita rapida, figli dell’ingegnera genetica, possano essere posti in commercio; non c’è solo il costo ambientale spaventoso che richiedono confezionamento, congelamento e trasporto, e quello antropologico e morale che deriva dall’aver trasformato il vivente in impacchettabili parallelepipedi di proteine: quel sorriso nasconde una strategia di controllo biopolitico e  una guerra asimmetrica combattuta e vinta a colpi di messaggi capaci di aggregarsi a formare un racconto che ciascuno può adattare a se stesso per minimizzare sensi di colpa e sofferenza.
Quel sorriso è una delle forme in cui si manifesta la frantumazione del mondo in nonsense, operazione alla quale attendono eserciti di creativi semiconsapevoli, utili idioti per una causa ultima che forse ignorano, che certo ritengono al di fuori della loro sfera deontologica, e che sfornano, in perfetta pace con se stessi, spot folgoranti e coinvolgenti quanto ripetitivi e stordenti. Armate di pubblicitari che con innegabile e stolta bravura riescono a restringere fino a dimensioni lillipuziane l’anima del pubblico, perseguendo in modo soave la via della commozione, della retorica, del verosimile.  
Rivela, quel sorriso, una strategia del controllo che si basa non più sulla repressione fisica, né su un fantomatico condizionamento, ma sulla fascinazione, sulla seduzione, sulla creazione di dipendenze, sull’entusiastico coinvolgimento, sulla ricerca del divertimento e della soddisfazione personale. Ma se su un fronte si schierano lo spot, l’entimema, la operabilità, il mondo ridotto a ripetizione di plastica, sull’altro cosa c’è?
Se da un lato chi afferma, e vuole, che il mondo segua leggi naturali che sono le stesse dell’economia, dall’altro chi? 

1 commento:

Felix64 ha detto...

Dall'altra parte ci sono gli stessi. Ripresi, con un altro vestito, o in un luogo o in un tempo diversi. Perché la coscienza attraverso cui leggiamo la realtà è, come si sa, uno specchio. E il pubblicitario mangia bastancini di salmone. E anche chi non mangia bastoncini di salmone sa essere un (bravo) narratore. Se togliamo lo specchio illusorio che ci divide da noi stessi, saremo più soli, più insicuri ma più padroni del nostro destino.