martedì 16 dicembre 2008

My sportive blood: il mistero del calcio

(a Mimmo Favuzzi, tifoso dell'Inter)




L’Italia deve circa il 2% del suo PIL all’agricoltura. Al calcio il 2,7%. Quella del pallone, indotto incluso, sarebbe la quinta industria del paese. Non so se sia più sorprendente il dato in sé o il fatto che sia possibile, correntemente, definire “industria” l’inseguire un pallone in mutande e calzettoni.
I critici del PIL, quelli che lo ritengono misura falsa della ricchezza, avrebbero certo molto da dire in proposito; io mi limiterò a notare che la rappresentazione che Antonio Cassano ha fatto di sé, in una recente intervista televisiva, sarebbe profondamente errata: non di un “nullafacente” si tratterebbe, ma, al contrario, di persona laboriosissima alla quale il paese tutto deve essere grato, e non già solo per le magie di cui è capace con i piedi, ma perché materialmente ci fa tutti più ricchi.
Keynes sostenne che, dal punto di vista dell’efficacia della spesa al fine di stimolare la domanda e quindi la crescita economica, fra costruire strade e ponti o, piuttosto, scavar buche per ricolmarle differenza non ve ne sarebbe alcuna. E, ne sono sicuro, se fosse stato sollecitato a esprimere un’opinione, non avrebbe mancato di riconoscere ai calciatori un’utilità sociale certo non inferiore a quella di ipotetici scavatori di fossi.
Si sa che la produzione industriale in una società capitalista è per sua natura eccedentaria: sempre di più si creano beni con sempre meno addetti. Dissipare velocemente quel che sempre più velocemente e in maniera sempre più abbondante vien prodotto da un numero decrescente di addetti sempre meno pagati è il primo grande problema di quella che chiamiamo, senza neanche ironia, “civiltà del consumo”: una “civiltà” che deve consumare beni con l’incrementante velocità necessaria a sostenere l’economia, se non vuol vedersi costretta a sperare in catastrofi naturali o, addirittura, a ricorrere a guerre per colmare l’insufficienza della domanda.
È vero che potremmo risolvere il problema della sovrabbondanza e dello spreco lavorando tutti di meno, dandoci all’ozio creativo, alla ricreazione filosofica, a tranquille passeggiate salutistiche. Ma senza surplus non ci sarebbe accumulazione e non esisterebbero differenze sociali.
Né la necessità di trovare una giustificazione a queste differenze: come far sì che il paradosso, per cui a venir beneficiato dalla moltitudine di chi ha meno è chi di più ha, non sembri tale, come fare in modo, cioè, che gli happy few non solo non siano oggetto di risentimento, ma che anzi siano amati da un numero di persone sufficientemente grande da garantire la stabilità del sistema sociale, è l’altro grande problema.
Per lungo tempo la nascita illustre e un dio che tutto considera rendevano sufficientemente motivati ogni dispensa, franchigia o vantaggio. Oggi, retaggio maligno della Presa della Bastiglia, ogni privilegio rischia di essere visto con diffidenza e sospetto. Nel senso comune è ormai cementata l’idea che solo il merito possa giustificare ricchezze e sperequazioni e non sembra possibile, almeno a breve, un ritorno agli antichi principi.
La crescita esponenziale della produzione di beni e l’ineludibile assottigliarsi del numero dei produttori costringe così, è inevitabile, a dilatare i confini del merito e a riconoscere come virtuose attività fra le più varie e fantasiose. Che non starò qui a elencare e neanche ad accennare perché non è mia intenzione correre il rischio di essere tacciato di praticare quella facile ironia che viene dal risentimento.

La parola “sport”, che con “diporto” condivide l’etimo, appare una delle prime volte nella lingua inglese in un sonetto di Shakespeare:
For why should other's false adulterate eyes / Give solution to my sportive blood?
che trovo tradotto:
Perché mai dovrebbero gli occhi altrui adulteri / considerar vizioso il mio amoroso sangue?
Lo “sport”, nella sua accezione originale, va inteso come una predisposizione del sangue a infiammarsi senza tornaconto, senza una ragione vera, ma solo per amore dell’amore.
Gratuità e diletto: non molto delle caratteristiche fondative è rimasto nello sport professionistico dei nostri tempi, perlomeno in chi lo pratica.
Ma per chi invece lo guarda in tv seduto comodamente in poltrona posseduto da trance agonistica, dimentico di tutto, di madri, mogli e figli, di IVA da pagare, di licenziamenti pendenti, tutto è rimasto come prima. Al primo fischio dell’arbitro il triste principio di economia, il richiamo noioso a far quel che è utile è dimenticato e allo spreco si partecipa festanti.
Se scialacquare si deve, non è giusto che sia soprattutto il calcio a farlo?
Che il mondo si dissipi dunque in una veronica, o in un paso doble, in un tunnel e in un colpo di tacco, in uno di quei momenti perfetti che celebrano in una comunione estesa all’umanità intera questo «mistero senza fine, bello» che è la vita e il calcio, il calcio e la vita.

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